I mercanti portoghesi chiamavano la perla scaramazza, quella irregolare, aljofre baroco. Il termine indica una negatività e negativo era il giudizio di Winkelmann quando nel 1755 parlò per le opere di Bernini e Borromini di baroque geschmak (gusto barocco) rimproverandoli per aver ignorato la lezione della natura e dell’antico. Ma cosa aveva ancora da insegnare la natura dopo Leonardo, e la grande lezione del tonalismo veneto e che cosa si poteva chiedere ancora al mondo antico dopo le ricerche del rinascimento e dei trattatisti? Certo Winkelmann aveva sotto gli occhi le eccezionali opere d’arte che venivano da Pompei e che contribuirono a convincerlo che il fine dell’arte è la bellezza totale e l’artista è lo strumento per raggiungere questa meta, uno strumento freddo, inerte, che deve essere costruito nelle accademie, attraverso lo studio della storia dell’arte, del disegno, della mitologia, dell’anatomia. Una totale incompatibilità dunque con artisti come Bernini e Borromini che avevano fatto dell’immaginazione la loro musa ispiratrice confermando l’assunto che:
« Alcune cose che la natura non sa fare l'arte le fa, altre invece le imita. » (Aristotele: Poetica).
Le più grandi realizzazioni barocche di Roma sono la prova provata di questa definizione.Grazie all’arte tutti possono assistere all’ apoteosi di Sant’ Ignazio. Basta alzare la testa nella chiesa a lui dedicata e scoprire come l’immaginazione di chi guarda e l’ingegno di Andrea Pozzo abbiano reso reale un evento non verificabile e lo stesso vale per la transverberazione di Santa Teresa. Il Bernini riesce a far lievitare il marmo e il Borromini ci mostra addirittura uno spazio che non c’è nella Galleria di Palazzo Spada. Considerazione personale: Ma questo barocco (si parva licet…..) non è per caso come la televisione di oggi che è capace di mostrare una cosa che non c’è? Siamo al trionfo del virtuale sul reale. Il potere della Chiesa non poteva restare indifferente ed infatti utilizzò quest’arte per confermare le proprie certezze spirituali nei confronti della chiesa riformata dando agli artisti che operavano in Roma il supporto ideologico necessario. Questo mancò a Napoli, dove, tra l’altro, la mancanza di ampi lotti di terreno su cui poter edificare e la presenza di altri edifici di solito immediatamente a ridosso di quello da ricostruire o trasformare, costrinsero gli architetti a concentrarsi in modo particolare sugli spazi interni, realizzando cortili con scenografiche scale aperte quasi sempre a doppia
rampa (caratteristica del barocco napoletano) e portali monumentali. Fra tutti primeggiò Cosimo Fanzago (1593 – 1678) che segnò con la sua opera la città. Bergamasco di nascita, ma napoletano per formazione e cultura, rappresentava il vero uomo barocco.
Elegantissimo, gran signore, viveva nel lusso ed era sempre eccessivo nelle sue manifestazioni. Capace di una competizione professionale al limite della correttezza ma pronto a prendere le difese di un collega se riteneva che fosse stato oggetto di un’ ingiustizia. Apprese il mestiere di architetto dal suocero, Angelo Landi, un tardo manierista toscano che lo abituò alla rielaborazione di forme classiche, come appare evidente anche nelle poche opere che ha lasciato nella nostra città e che non riusciamo a proteggere in maniera adeguata come dimostrano gli ultimi episodi di vandalismo che hanno interessato la fontana di Bellerofonte (‘a fontana re tre cannuoli o anche ‘a fontana a chiazza) e lo stato di abbandono della Dogana dove la misura delle pannellature, la creazione di nicchie e l’utilizzo di statue antiche evidenziano le origini del suo personalissimo stile. Dell’interno non conserviamo niente. Probabilmente il Fanzago liberò il suo estro di creatore di policromie di marmo commesso in modo particolare nella parte della Dogana destinata alla vita della cittadinanza. Soffermiamoci però ad esaminare la costruzione dall’esterno relazionandola con le altre opere dello stesso Fanzago presenti sulla Piazza. Appare evidente la volontà di tentare un intervento di sistemazione urbana che meriterebbe un’indagine più attenta e approfondita. Infatti la posizione dell’obelisco di Carlo II all’incrocio della strada beneventana con quella che portava in Puglia, libera uno spazio finalmente pensato e a disposizione della collettività, il primo in Avellino. La vista poi dell’elegante torre dell’orologio, di cui si poteva godere pienamente solo quando si giungeva nella Piazza, creava meraviglia e stupore, sensazioni tanto care alla poetica barocca. Tutto questo oggi è difficilmente percepibile e per niente immaginabile. Le trasformazioni successive hanno completamente alterato uno spazio urbano che per noi avellinesi rappresenta il vero topos, il luogo della memoria e che ha fatto da sfondo e da palcoscenico a storie importanti e meno importanti che hanno contribuito a creare quell’insieme di caratteristiche sociali, culturali, artistiche, architettoniche, di linguaggio e di abitudine che caratterizzano il
genius loci.
Un quadro della seconda metà dell’800 di Giovanni Battista prova quanto affermato. L’opera mostra la piazza da via Duomo ed è chiaramente rappresentato, seduto sotto il Re di Bronzo, un popolano che per dimensione e posizione assunta ricorda Mariniello (i meno giovani lo ricorderanno) che, cento anni dopo assumerà la stessa identica posa appoggiandosi ai leoni della Dogana (uno dei suoi posti preferiti). Ora delle due l’una: o come molti artisti il Battista è stato in grado di prevedere il futuro o, ed è quello che io penso, ha rappresentato un luogo senza tempo e senza età dove, a prescindere dall’abbigliamento delle persone, dai mezzi di trasporto presenti e dalle tecnologie e dall’arredo urbano, tutti (gli avellinesi) sono in grado di riconoscere e riconoscersi. Il Genietto da qualche anno non si fa più vedere, non perché sia morto, ( i Geni sono immortali) ma perché è infastidito dalla mancanza di rispetto che gli è stata dimostrata in questi ultimi anni. Ma tornerà, ne sono sicuro e bisogna prepararsi a festeggiarlo sistemando la Piazza e iniziando finalmente il restauro di quel che resta della Dogana, e studiando seriamente le statue della facciata. Lo meritano, sia perché vogliono raccontarci qualcosa che non riusciamo a capire e che ha a che fare con Venere e con Artemide, e sia perché tra di loro potrebbe nascondersi un vero tesoro, forse l’ultimo regalo dei Caracciolo ad Avellino. Bisognerebbe avere certezza del luogo del ritrovamento di questi reperti perché se, per caso, provenissero, dico per dire, da Cuma, allora …………. .